Giovanni Santunione

 

PIUMAZZO :

UN CASTELLO ARMATO

FRA PETRONI

E GEMINIANI

 

Capitolo 1    -    IL MITICO FORUM GALLORUM

UNA CITTA’ SEPOLTA, MA DOVE ?

Capitolo 2    -    IL TALLONE DEI BARBARI

Capitolo 3    -    IL FEUDALESIMO

Capitolo 4    -    IL MITICO CASTELLO

DI CANETOLO

Capitolo 5    -    MODENA E BOLOGNA

AI FERRI CORTI (incompleto)

 

 

CAPITOLO I

 

 

IL MITICO FORUM GALLORUM

UNA CITTA’ SEPOLTA, ,MA DOVE ?

 

C’è una città sepolta da qualche parte vicino alla via Emilia nella zona di Castelfranco Emilia e Piumazzo ma di essa, oltre a qualche reperto, non si conosce che il nome : Forum Gallorum.

 

Come il nome chiaramente denuncia dovette svilupparsi da qualche villaggio celtico poiché tutta l’Emilia era abitata dai Galli Boi prima che il Console Flaminio la conquistasse ai Romani nel 222 a.C.

 

Pochi anni dopo il Console Emilio Lepido tracciò la spettacolosa direttrice che da lui prese nome, la Via Emilia accentratrice di genti che suscitò la colonizzazione e la lottizzazione sistematica del territorio.

 

Una lettura non sommaria del paesaggio permette ancor oggi di individuare ed interpretare le linee fondamentali di una fitta centuriazione che solo le alluvioni, e segnalatamente quelle del Panaro, hanno cancellato.

 

Dallo storico Dione Cassio abbiamo menzione di un memorabile fatto d’armi che si tenne presso il Forum Gallorum nel 43 a.C.

 

Cesare era appena caduto ed il Senato romano, che si era schierato a favore di una restaurazione repubblicana, era deciso a togliere di mezzo Marco Antonio ed il suo esercito che nel frattempo aveva posto il blocco a Modena in cui stava rinchiuso Decimo Bruto.

 

Fra i due gruppi armati si stagliava una tratto del Panaro, e mentre gli assediati sembravano sul punto di capitolare, nuovi vigore e conforto giungeva da alati messaggeri, i triganini di Modena, che annunciavano la presenza di un esercito repubblicano ai comandi del Console Caio Irzio che aveva posto il campo al di là del ramo principale del fiume molto vicino alla via Emilia.

 

Nel frattempo il Senato, deciso a spazzar via Antonio e le sue soldatesche, indisse una leva straordinaria e avendo reclutato quattro legioni le affidò al console Vibio Pansa affiancato dal giovane Ottaviano.

 

Antonio, volendo impedire il congiungimento dei due eserciti avversari, mandò il fratello Caio ad impegnare Irzio ed Ottaviano mentre egli attaccava Vibio Pansa nei pressi del Forum Gallorum.

 

L’attacco riuscì benché un legionario avesse avvertito il console dell’arrivo di Antonio traversando a nuoto il Panaro.

 

Vibio Pansa rimase ferito e fu trascinato penosamente verso il Forum Gallorum dove morì mentre l’esercito, avendo subito gravi perdite dovette ritirarsi dall’accampamento.

 

Una settimana dopo, il 21 aprile, avvenne lo scontro decisivo fra Antonio da una parte, Irzio ed Ottaviano dall’altra.

 

La battaglia durò fino a sera e si concluse con un certo vantaggio per Antonio il quale però, avendo subito gravi perdite, tolse il blocco a Modena e prese la via delle Gallie.

 

Così gli abitanti di Forum Gallorum videro sfilare le legioni vittoriose con alla testa il giovane Ottaviano ma la festa fu breve perché giunse ben presto la notizia della morte di Caio Irzio che era caduto combattendo in prima linea.

 

Alcuni mesi dopo in una penisoletta fluviale sulle rive del Lavino avvenne lo storico incontro fra Antonio, Ottaviano ed Emilio Lepido che portò alla costituzione del Primo Triunvirato.

 

Alcuni autori del passato vogliono che la località Sacerno che ancora si trova in questo luogo prenda nome dal latino “sacernere” ossia dividere, separare, a memoria della divisione del mondo che qui venne operata.

 

L’episodio lasciò tracce profonde nella tradizione locale e venne più volte invocato durante le irrisolvibili questioni di confine che divisero Modena e Bologna e che andremo successivamente narrando.

 

La storia del mondo nell’anno 43 a.C. trovò dunque il proprio epicentro nei dintorni del Foro dei Galli ma questo luogo che pure continuò per un certo tempo ad esistere a ridosso di quelle paludi dove, stando alla descrizione di Dione, i soldati romani si muovevano a fatica calzando tavole di legno a mò di racchette per mantenere l’equilibrio, non fu mai più menzionato nelle future vicende.

 

L’ultima interessantissima traccia proviene dalla TABULA PEUTIGERIANA ricavata da un ignoto autore romano sulla base di un enorme dipinto ad affresco che rappresentava l’impero romano, ossia tutto il mondo allora conosciuto.

 

Vi sono segnati i luoghi e le località più importanti e fra questo il “FORO GALLORUM”.

 

Esso è collocato a metà strada fra Bonomia e Mutina, sulla via Emilia dal tratto perfettamente rettilineo a ridosso del ramo di un fiume che confluisce in un altro, certamente il Panaro nel suo incerto divagare.

 

Pochissime altre, e tutte sulla Via Emilia, sono le città notabili dal mare fino a Piacenza e con sorprendente connessione fra presente e passato, le città della Tabula Peutingeriana restano le più importanti anche ai nostri tempi.

 

Ma il Foro dei Galli, quasi che qualche nume volesse punirlo per essere stato il teatro della prima ira fra Antonio e Ottaviano, scomparve e nessun scritto, nessuna indicazione o frammento rimase a perpetuarne la memoria.

 

Le ragioni della sua scomparsa saranno ampiamente illustrate in seguito perché profondamente connesse con la sostanza di questo racconto ma intanto occorre aggiungere qualche notizia utile a definirne meglio il luogo e le possibilità di riportarlo alla luce.

 

Del Foro dei Galli si perdette memoria per oltre un millennio e se ne ritornò a parlare solo dopo il risveglio degli studi umanistici.

 

Riconoscendone facilmente l’esistenza e potendone immaginare l’importanza parve a molti impresa facile ricostruire l’identità e rilevarne il luogo perché le nozioni rimaste apparivano estremamente precise.

 

Ma il Foro dei Galli non poteva emergere per semplice evocazione dai limi in cui è ancora sepolto, così gli storici ed i ricercatori si affannarono in misurazioni e dispute spostandolo da un luogo all’altro a seconda delle proprie tesi.

 

Ci fu persino chi lo volle a Crevalcore per la sola ragione delle paludi ma la convergenza più accreditabile si ebbe sulla località del Prato dei Monti.

 

E’ questo un luogo estremamente interessante collocato a circa un chilometro dalla via Emilia dalla parte di sopra cioè verso le prime colline.

 

Fino al 1950 il Prato dei Monti mostrava, come indica chiaramente anche il nome, quattro cumuli di terra entro un perimetro rettangolare con il lato maggiore di circa 180 metri.

 

Abbiamo detto mostrava perché dopo il 1950 queste montagnole furono spianate per fare spazio alle coltivazioni ma sono rilevabili nella Tavoletta di Castelfranco che mostra appunto quattro piccoli cumuli di terra elevati evidentemente dalla mano dell’uomo.

 

Essi riconducono perfettamente all’immagine di un castrum romano come potè ancor meglio identificarlo il Calindri che vi fece visita verso la fine del Settecento.

 

Egli ne disegnò i contorni annotandovi testualmente che si trattava di un luogo “rettangolare, all’uso romano, con un rialzo di terra ed un secondo nell’interno con quattro cumuli agli angoli”.

 

Come corollario di questo egli potrà annotare nella vicina possessione di San Donnino un altro rialzo di terra di forma rettangolare a doppia fortificazione.

 

Tutto intorno i reperti di età romana emergono con abbondanza dopo ogni aratura e si possono trovare con facilità pietre manubriate, tegole, parti di anfore, residui di fusione insieme con abbondante ghiaia e sassi di fiume.

 

Ciononostante io non sono propenso a credere che questo fosse il centro del Forum Gallorum perché occorrerebbe giustificare una deviazione della via Emilia che ritengo alquanto improbabile.

 

Le cronache della battaglia di Modena parlano infatti di rialzi di terreno o terrapieni su cui passava la via Emilia ma Forum Gallorum doveva essere all’asciutto ed il fatto del terrapieno lascia credere che i Romani affrontassero la palude procedendo diritto com’era loro costume piuttosto che lasciarsi dominare da infinite deviazioni che non rientravano nei loro canoni costruttivi.

 

La centuriazione ere perfettamente misurata sulla via Emilia e questa era impostata su Cardo e sul Decumano di Modena e Bologna come può essere dimostrato con una semplice misurazione.

 

L’antica via Emilia coincideva dunque con l’odierna e passava per il Forum Gallorum subito ad est di Castelfranco Emilia collegandosi con il Prato dei Monti che poteva essere il suo campo trincerato così come una sicura connessione si potrebbe derivare approfondendo la ricerca sull’antichissima fortezza che si erge a ridosso di Villa Melara.

 

A questo punto m’accorgo che forse anch’io sto battendomi per sostenere una tesi ma per non uscire dalla verità bisognerebbe andare oltre la pura e semplice ricerca storica.

 

Basterà dire che mi sono aggirato abbastanza in quei dintorni per ricavarne l’impressione di una inusitata ricchezza archeologica ma soprattutto mi sembra di poter affermare che il foro dei Galli è già stato trovato e gelosamente tenuto nascosto.

 

L’hanno trovato riportandone reperti durante i lavori dei campi ma soprattutto scavando le fondazioni per le nuove costruzioni, case e fabbriche sulla via Emilia.

 

Alcuni di questi reperti sono conservati alla raccolta civica di Castelfranco Emilia ma la gran parte di loro sono gelosamente riposti e di essi si è solo sentito dire a mezza voce, per non perderne la proprietà o per non interrompere il corso dei lavori.

 

La vita nuova di Forum Gallorum dunque è a portata di mano sotto due buoni metri di depositi fluviali e non resta che saggiare il terreno e scavare, se ne viene voglia o se ne indurrà l’amore per le cose belle.

 

 

 

CAPITOLO II

 

 

IL TALLONE DEI BARBARI

 

SEMIRUTARUM URBIUM CADAVERA TERRARUMQUE SUB EODEM CONSPECTU EXPOSITA FUNERA” con queste parole Santo Ambrogio commentò  l’estrema desolazione dei luoghi dopo il viaggio che compì, nel 338 dopo Cristo, attraverso le città di Bologna, Modena, Reggio e Piacenza.

 

In meno di un secolo la situazione si era completamente rovesciata e dove rifulgevano traffici e prosperità avevano luogo miseria, desolazione e squallore.

 

Infatti nel corso del III secolo, nella imminenza delle prime invasioni barbariche, le città avevano rialzato frettolosamente le proprie mura tagliando fuori i quartieri periferici per meglio concentrare le difese.

 

Isolati e perseguitati da una spietata politica fiscale anche gli ultimi coloni dovettero lasciare i campi per cercare rifugio nelle città che divennero trappole micidiali e retaggio delle ultime ricchezze su cuoi si sarebbero appuntate le mire dei barbari già dilaganti senza freni in tutta l’Italia.

 

Forum Gallorum fu probabilmente abbandonata perché poco sicura e lasciata ai rovi ed alle alluvioni dopo che erano state travolte le difese approntate dalle attive comunità romane.

 

Ma ben altri dovevano essere i problemi stando ai lamenti di Papa Gregorio Magno che alla fine del 500 non riesce a vedere altro che città distrutte, campagne devastate, terra mutata in deserto.

 

E la gente ? “Gli uni traggono gli altri prigionieri e tornano con le mani mozzate …………… Regna la legge della spada e la morte incombe brutale mentre le ultime forze sfuggono per l’inedia ai corpi generati da tanto vigorosi antenati talchè non hanno la forza di raccogliere una radice per sfamarsi e dopo essersi piegati sulle ginocchia cadono a terra morti”.

 

Ora anche le città non servono più alla difesa e grumi di superstiti si aggirano sui monti alla ricerca di una ghianda e di solide pietre dietro le quali attestarsi consegnandosi ai più forti per ottenere un poco di protezione in cambio di perpetua servitù.

 

Il Borghi afferma che dopo le continue alluvioni del 500, e specialmente quella del 589, il territorio intorno a Modena era divenuto impraticabile ed i viandanti che volevano recarsi da Parma a Bologna erano costretti a percorrere la via Claudia ridosso della collina.

 

Su questa direttrice, ultima emanazione di una fitta rete di strade che solo dopo secoli potranno essere riattivate, si svolsero gli ultimi contatti fra la zona del Panaro e del Samoggia ed il mondo circostante.

 

Questo isolamento fu favorito dallo stabilirsi in Italia di una particolare situazione politica.

 

Infatti tutto il territorio bolognese dopo la caduta dell’Impero Romano d’occidente dipendeva dagli imperatori romani d’oriente che risiedevano a Costantinopoli e lo governavano attraverso lo Esarca che risiedeva a Ravenna.

 

Il confine, prima più vasto, si portò sul Panaro a causa della pressione dei barbari Longobardi, una popolazione germanica che scese in Italia nel 568 attraverso Cividale del Friuli occupando buona parte dell’Italia settentrionale e elevando a capitale la città di Pavia.

 

Essi stazionarono a lungo sul Panaro facendo solo qualche puntata verso il Samoggia temendo forse, nonostante fossero adusi ad ogni genere di difficoltà, le insidie del luogo.

 

I Bizantini avevano dunque trovato nelle vaste paludi, nei boschi e nei canneti della nostra zona un comodo mezzo per fermare l’avanzata degli strapotenti nemici da cui avevano già ricevuto rilevanti sconfitte ed il nostro territorio divenne una zona cuscinetto, una terra di nessuno che divideva due entità politiche irrimediabilmente inconciliabili.

 

Si arrivò in questo modo al 726, anno in cui la tensione fra Bizantini e Longobardi si aggravò perché la Chiesa d’Oriente proibì il culto delle immagini sacre creando una questione che degenerò in lotta aperta e sanguinosa con i cristiani d’occidente che avevano come pontefice Gregario II.

 

Il re dei Longobardi Liutprando meditò allora di invadere il territorio bolognese in mano bizantina offrendo il proprio appoggio al Papa e si accinse ad espugnare i castelli che formavano una cintura fortificata ai confini dell’Esarcato.

 

Ad uno ad uno caddero i castelli di Monteveglio, Verabolo, Feroninano e rimase ai Bizantini solo la parte montana di quella provincia che avevano costituito e che venne denominata Provincia delle Alpi.

 

Paolo Diacono, il più importante cronista della storia dei Longobardi ricorda questa fondamentale azione di guerra nel seguente passo: ”Rex quoque Liutprandus castra Aemiliae, Ferninanum, Montebellium, Buxeta, Persicela invasit”.

 

Il re al fine di marciare più rapidamente sull’Esarcato fece riattivare la via Emilia dando il via alla rigenerazione della zona che venne riacquistando una propria identità specie con l’instaurarsi del ducato di Persiceto di cui venne a far parte.

 

 

 

CAPITOLO III

 

 

IL FEUDALESIMO

 

 

Con l’avvento dei Longobardi inizia l’era feudale durante la quale la società umana dell’Occidente ricostruisce una rigida gerarchia di struttura piramidale con prevalenza delle classi nobiliari al fine di ridar vita all’immagine perfetta dell’Impero Romano.

 

In questa tendenza si inserisce la Chiesa che pone accanto al magistero ed al potere dell’Imperatore la figura del Papa rilevando anzi che l’uno pur perfetto e completo nella sua funzionalità, deve dipendere dall’altro che attinge direttamente alla divinità.

 

Con l’avvento dei Franchi e di Carlo Magno nella mitica notte dell’incoronazione alle soglie dell’anno 800 questo sogno sembra realizzarsi per lasciare ben presto libero campo ai contrasti che vedranno l’un contro l’altro armati dei due poteri.

 

Accanto a queste spinte disgregatrici affiorano poi i malumori dei piccoli feudatari che, instaurati di diritto in uno spazio troppo breve di autorità, tendono sempre più a far rifulgere la propria autonomia subendo alfine la preponderanza delle classi mercantili delle città.

 

E’ una storia minuta e spesso segreta che si svolge nelle campagne dove i fossi ed i viottoli assumono agli occhi dei contendenti le dimensioni di grandi confini sui quali le sorti individuali vengono messe in gioco con la tragicità degli eventi universali.

 

Signorotti ed abati, contadini e fraticelli, affamati e reietti vivono a stretto contatto in un territorio evanescente la cui storia scritta sull’acqua torbida delle alluvioni ma può apparire cristallina e trasparente se si riesce a fermarla al suo giusto livello proprio come gli argini delle bonifiche che allora si andarono faticosamente intraprendendo.

 

 

L’opera dei monaci

 

 

La presenza dell’abbazia benedettina di Nonantola ebbe un importanza eccezionale per la sistemazione e le bonifiche dei terreni in tutto il nostro territorio come grande fu la sua influenza di ordine politico e morale.

 

Sorsero le prime opere di arginatura e le acque furono a poco a poco canalizzate verso i corsi maggiori.

 

Si aprirono all’agricoltura nuove terre dissodando i terreni e costruendo case, officine e mulini; a mano a mano che il territorio utile cresceva ed altro se ne presentava per efficaci opere di sistemazione lo si organizzava secondo la disposizione curtense.

 

Ogni corte veniva divisa in terrae dominicae o padronali ed in terrae massaricae o dipendenti.

 

Le terrae massericae erano concesse in enfiteusi secondo una forma di affitto che prevedeva un duplice impegno: rendere in denaro o derrate la spettanza per l’affitto e procedere a nuove bonifiche, incrementando il terreno utile.

 

Questo uso dai possedimenti dell’Abbazia si estese ai vari feudi e si rivelò il più propizio per l’emancipazione del territorio.

 

La fortuna dell’Abbazia di Nonantola prese avvio nel 749 quando il nobile longobardo Anselmo entrò nella regola benedettina e scelse Nonantola come centro delle proprie iniziative.

 

La storia di Anselmo è una delle più tipiche del mondo medioevale e tanto suggestiva da stupire ancor oggi.

 

Era infatti fratello di Rachis che era succeduto a Liutprando sul trono dei Longobardi e poteva vantare tutti i diritti per essere un giorno il nuovo re.

 

Sua sorella aveva sposato Astolfo che, grazie alla vocazione ed alla rinuncia di Anselmo, era pervenuto al trono dopo la morte di Rachis.

 

Astolfo fu munifico in terre e concessioni verso Anselmo e gli consentì di erigere un’ ospizio presso il passo di Croce Arcana dove collocò i suoi frati in collegamento con quello che si andava attuando presso il ponte di Sant’Ambrogio.

 

Dopo l’offerta delle vastissime terre intorno a Nonantola crebbero le opere e già nel 752 sorgeva la prima chiesa che avrebbe ospitato i resti di San Silvestro.

 

L’energia di Anselmo fu insuperabile e lo assistette la longevità (morì infatti nel 806) a tal punto che l’influenza dell’Abbazia di Nonantola si estese al Reno e su nelle colline fino a Monteveglio creando non pochi problemi di identità, di spettanze ed di confini che, definiti sulle pergamene, ci restituiranno dopo un millennio preziosi elementi per la ricerca storica.

 

La storia dell’Abbazia di Nonantola è dunque il principale punto di riferimento per chi si accosta allo studio delle epoche remote dei nostri luoghi e le indicazioni che di tanto in tanto scaturiscono fra le pagine ingiallite dei documenti fanno balenare miriadi di minute realtà, chiese, famiglie, conflitti, indicazioni geografiche, che stimolano nell’impegno di ricerca ma lasciano spazi immensi di mistero in cui tuffarsi.

 

Uno di questi, labile ma tangibile nelle presenze odierne, è dato dal

 

 

CASTELLO DI SAN COLOMBANO

 

     Nel corso del VII secolo il monaco irlandese Colombano venne in Italia, attraversò varie contrade dell’Emilia e morì a Bobbio, nell’Appennino piacentino, dove fondò un importantissimo monastero.

 

      Egli predicò una regola severissima ed essendosi la sua fama sparsa un po’ ovunque ebbe molti seguaci.

 

      Volitivo e deciso, duro nell’aspetto come nella predicazione rigoroso nel rispetto di una regola fra le più severe del monachesimo, San Colombano era il tipo ideale che la Provvidenza mandava a rincuorare ed incitare nell’operosità  popolazioni che il tallone dei barbari aveva rese inermi e servili mentre la tenacia che sapeva infondere diveniva un’arma psicologica per affrontare luoghi resi selvatici dall’incuria.

 

      E non vi era luogo più ostile di quell’angolo selvoso fra le rive del Panaro in cui la comunità monacale si stabilì nel nome di Colombano cercando di restituire alla vita quanto ancora ne concedeva la possibilità e di raccogliere e rincuorare i dispersi che affamati e laceri si confondevano nei meandri delle paludi per sfuggire ai barbari.

 

      Ai barbari, anche ai più truculenti, la figura del monaco ispirava soggezione tanto che, rinnovato nella fiducia, il primitivo insediamento di San Colombano assunse le dimensione di un fortilizio con torri, mura e dignità tale che fin dal X secolo venne nominato come castello.

 

      Successivamente appartenne a Matilde di Canossa che ne fece un Baluardo a custodia dei confini del suo vasto feudo verso quella città di Bologna che, pur governata da un conte suo partigiano, cominciava a manifestare tendenze indipendentistiche.

 

      Alla morte della divina contessa, avvenuta nel 1115, il castello si trovò isolato e si avviò verso la decadenza ma la sua chiesa fu ancora nominata nel decreto di Gerardo II (1154-1165) che la comprese fra quelle che venivano confermate nella giurisdizione di Monteveglio.

 

      Rapidamente il castello decadde e andò in rovina e sicuramente queste rovine furono usate per edificare il nuovo castello di Piumazzo come ricorda la cronaca di Matteo de Grifoni che all’anno 1203 dice testualmente “Castrum Plumacium aedificatus fuit quae ante vocabatur Sanctus Columbanus”.

 

      Una testimonianza del tutto eccezionale di questo avvenimento si trova nel manoscritto Innocenzo Costa – cat 366 C 37 dell’Archiginnasio di Bologna che in data 1203 raffigura le torri di San Colombano a forma di cupola e dell’erigendo castello di Piumazzo.

 

      La funzione di San Colombano nella vita del tempo appare ancor più chiaramente da un’affermazione del Muratori che a p.981 delle Antiquitates Italicae afferma che il sacerdote Don Martino Sighicelli della chiesa di Santa Maria di Gaville in Manzolino lascia nel suo testamento un soldo imperiale all’Hospitale Columbani.

 

      Dal documento citato si apprende anche che Giovanni, Priore del Monastero di Marola dal quale quello di San Colombano dipendeva, nell’occasione che si doveva consacrare la chiesa di San Giacomo di Piumazzo (e siamo dunque verso il 1210) promette a Dadone Vescovo di Modena di riconoscere quella chiesa come dipendente e soggetta ai suoi successori.

 

      Pieno riconoscimento dunque, funzionalità e sovranità sulla chiesa di Piumazzo appena eretta ma più importante ancora l’attività dell’Hospitale, un’ ospizio in piena regola a cui potevano fare riferimento i pellegrini, gli sbandati ed i fuggiaschi che vi potevano trovare ricovero e ristoro.

 

      L’ospizio entrerà poi fra le funzioni della chiesa di San Giacomo in Piumazzo ma San Colombano continuerà ad esistere finché nel 1559 sarà ampliato e restaurato dai nobili Boccadiferro.

 

      Sconsacrato alfine la principio dell’800 da un gruppo di soldati e mai più restituito al culto, San Colombano venne adibito a varie funzioni come stalla e mulino ma si erge oggi ancora integro mostrando fra le sovrastrutture affreschi di squisita fattura.

 

LE STRADE

 

     Il ritorno alla vita regolata comportò l’adozione di provvedimenti per le strade che praticamente erano state cancellate dalla fisionomia territoriale in secoli di abbandono.

 

      L’aumento delle risorse comportò l’aumento dei traffici anche se l’affermarsi della struttura economica chiusa del feudo non si conciliava con le esigenze di rinnovamento ma tanto manomessa risultava la viabilità  che qualcosa si dovette pur fare per ovviare ad un completo immobilismo.

 

      Abbiamo già visto la sorte della via Emilia ed abbiamo accennato alla via Clauda o Claudiola che, essendo completamente selciata sulla pedemontana, funzionò sempre anche se ben poco si fece per mantenerla scorrevole.

 

      La via Clauda si collegava con l’importante strada del Reno che conduceva in Toscana e che aveva avuto al tempo degli Etruschi il formidabile punto di riferimento di Misa (oggi Marazabotto) dalla quale si controllava tutta la pianura fino all’importante imbarco di Spina.

 

      Essa riceveva poi il tratto di quella via che salendo da Savigno per Castel d’Aiano e Lizzano conduceva a Fanano prima di affrontarei gioghi del passo di Croce Arcana a 1.400 mt di quota.

 

      L’importanza strategica di questo tratto doveva essere eccezionale se si pensa che Anselmo ricevette da Astolfo in dono la località di Fanano e la licenza di costruire un ospizio nel luogo che oggi si chiama opportunamente Ospitale.

 

      Qui si fermavano i pellegrini, i romei ed i soldati storditi dalle difficoltà di percorsi che continuamente vengono descritti come impervi e impraticabili nella cattiva stagione.

 

      Di qui passò il Papa Adriano III che, partito da Roma nell’883 per recarsi in Germania, si ammalò nei pressi di Wilzacara e trovò la morte l’anno dopo nell’ospizio di San Bernardino sulle rive del Panaro.

 

      Veramente la notizia di questa morte non è comprovato altro che da una lapide postuma che si trova sulla parete di San Bernardino e forse Adriano III morì a Nonantola dove certamente venne condotto.

 

      Quello che a noi importa è constatare la presenza di una via che si doveva forzatamente percorrere per dirigersi a Nonantola dalla via Claudia seguendo per lunghi tratti le anse del Panaro e mi pare che niente di più pratico e logisticamente possibile potesse servire della via Imperiale, oggi tratto di campagna fra Piumazzo e San Cesario ma via confinaria importante fra Castelfranco e Nonantola, che asseconda questo itinerario.

 

      Via Imperiale è un nome che si è conservato nei tempi e che illustra magnificamente la condizione dei grandi viandanti di allora, Papi e Imperatori, gli unici che assieme ad audacissimi mercanti potessero affrontare le insidie di lunghi viaggi.

 

      Altra via spesso nominata è la Cassola che nella terminologia medioevale di Caxola potrebbe derivare da un Claxola altro toponimo con cui si individuava la via Claudia.

 

      Questa via andava da pragatto verso Angola e la via Emilia ma si trova oggi nominata su altri tratti come da Piumazzo a Ponte Samoggia.

 

      Per concludere occorre dire che l’instaurarsi di un confine stabile fra Modena e Bologna nella zona prospiciente il Panaro impedirà fino all’Unità d’Italia l’affermarsi di vie importanti e la stessa via Emilia si ridurrà ad una sorta di viottolo senza uscita oltre l’ostrico passo di Sant’Ambrogio sul Panaro mentre la viabilità locale sarà caratterizzata da viottoli e “strabelli” che si svilupperanno con larghe circonvoluzioni ai margini dei confini di proprietà cancellando definitivamente con questa disposizione le tracce ancora leggibili della regolarissima centuriazione romana.

 

LE SELVE

 

      Una straordinaria documentazione ci è pervenuta a proposito dei boschi che costituivano l’elemento predominante del paesaggio e fornivano le risorse primarie di una povera economia.

 

      Al tempo del re longobardo Astolfo esisteva una vasta corte detta Selva di Zena che faceva capo a Wilzacara, l’odierna San Cesario.

 

      Essa comprendeva anche il vastissimo bosco di Gaggio (Gaium = bosco) ed il Tiraboschi ne precisa l’estensione fino ai confini orientali delle terre di San Cesario e Piumazzo quasi toccando l’osteria della Samoggia fino alla terra di Persiceto.

 

      Sappiamo anche che continuava ad oriente della Samoggia fino ad Angola dove nel 1298 i bolognesi ordinarono che “vi fossero tagliati tutti gli alberi, salvando le noci, i pomi e tutti gli alberi domestici, sotto pena di lire 100 e del bando”.

 

      Sempre nello stesso anno si comandò che venisse “interamente” tagliato l’estesissimo bosco della Pieve di Monteveglio che giungeva ai confini di Piumazzo perché in esso si “appiattavano i nemici della città”.

 

      Altrettanto fu fatto del bosco di Piumazzo fino agli estremi del territorio di Bazzano che le più antiche carte ci presentano col nome di Flabano.

 

      La toponomastica locale ci riporta svariati nomi legati all’immagine silvestre in coincidenza con l’antico Flabano come via Arboreo, via Verdè (dal latino Verdetum) via Frassino e ……… fondo Bosco.

 

      I boschi si presentavano estremamente foliti ed erano intercalati da ristagni d’acqua e paludi.

 

      Le piante predominanti erano il rovere, l’olmo, l’acace, assieme al castagno ed al pioppo nelle zone umide.

 

      Dopo il taglio indiscriminato operato per ragioni strategiche le piante vennero selezionati in base alla loro utilità ed è certa anche la presenza di oliveti ad Oliveto (che da questi prende il nome) ed a Monteveglio dove sopravvivono ancora alcuni esemplari di olivo.

 

      L’importanza del bosco e della pianta spontanea nell’economia locale si è protratta fino a tempi recenti con l’avvento della piantata e delle colture razionali.

 

      Dal bosco si traeva ogni sorta di ricchezza come la legna, gli stecchi, i frutti spontanei, le fibre vegetali per l’intreccio dei cesti.

 

      L’ultima pianta che fu selezionata per uso comune fu la quercia che forniva le ghiande per alimento dei maiali e di querce ve n’erano tantissime tanto che nel 1848 apprendiamo da una lettera della parrocchia di Piumazzo che in un suo fondo se ne abbatterono oltre 200 per fare spazio a nuovi metodi di coltivazione.

 

UNA FITTA RETE DI CANALI

 

      Abbiamo ripetutamente parlato dei fiumi e delle acque che caratterizzarono l’ambiente e la vita nella zona fra Panaro e Samoggia ma occorre aggiungere qualcosa per definire una questione che non appare completamente chiara.

 

      Dopo il Mille le carte parlano ancora di San Colombano e Piumazzo in “ripa Scultennae” e non poco ci sorprende una notizia che pone nella stessa condizione il Porretto che pure doveva far parte del bacino del Samoggia.

 

      Evidentemente esistevano ancora molte tracce degli alvei selvaggi del Panaro anche se dobbiamo pensare che dopo le bonifiche dei Benedettini l’alveo principale del fiume fosse ridotto entro i limiti attuali.

 

      Ciò è più verosimile se osserviamo come assunse a massima importanza la Muzza che venne identificando un confino che durò oltre 800 anni.

 

      La Muzza, che ha origine da una sorgente nei pressi di Montebudello, divagava anticamente nel nonantolano dove procurava alluvioni a causa della ridotta pendenza.

 

      Essa è nominata nel 722 con il nome di Mutia che diventa Mucia nel 955 quando, come avverte il Tiraboschi, questo nome fu dato ad una via e ad un limes.

 

      Nella donazione della Contessa Matilde ai Monaci benedettini di San Cesario del 1113 compare già il nome attuale di Muzza che diventa talvolta Muxola specie in coincidenza con le vicende di Bazzano.

 

      La Cronaca del Lancillotto ci ricorda che già verso il 1550 si pensò di scaricarla nel Panaro ma l’opera non si fece per ovvie difficoltà ed in seguito si trovano varie disposizioni per “cavare o acconciare” l’alveo della Muzza.

 

      Solo nel 1883, a causa dei continui disastri che procurava, fu deviata in Panaro nei pressi di Castelfranco allargando le tracce di quella fossa Traversagna che aveva definito il confine col Modenese.

 

      Oggi la Muzza è ridotto ad uno scolo maleodorante e pieno di rifiuti ma se si risale il suo corso verso la collina si ritrovano ancora quelle acque limpide che ne giustificarono il nome di torrente.

 

      Il declino della Muzza è dunque il segno più evidente della caducità dei tempi perché fu di somma importanza nei tempi in cui bastava varcarla per coinvolgere in guerre tremende le città confinanti, gli alleati, il Papato e l’Impero.

 

      Un canale importantissimo al tempo dell’Abbazia di Nonantola fu il Zena o Gena che ripeteva il corso dell’attuale Canal Torbido ma era più largo e navigabile.

 

      Infatti troviamo scritto dal Tiraboschi che a nessuno era lecito percorrerla con barche “cum naviglio pergere” senza la licenza dell’Abate e dei Rettori dell’Abbazia.

 

      Dopo aver fornito per secoli di acque il mulino di Panzano il Gena andò affossandosi scomparendo da ogni mappa e questa funzione è stata parzialmente restituita al Canal Torbido.

 

      Ancor meno rintracciabile è oggi l’affascinante Fossa Navigata o Navigatura sulla quale esiste intorno al Mille una doviziosa documentazione.

 

      Già nel 1065 il Tiraboschi ricorda una “Navigatura vecla” che non era più navigabile ma che diventò nel 1068 la “Nova Navigatura”.

 

      Nel 1089 abbiamo “L’aqua quae dicitur Navigatura” e nel 1187 una fossa Navigata che prendeva le acque dal Panaro al Chiusone passando per Canetolo.

 

      Numerose citazioni di confini riportano “A mane acqua quae dicitur Navigatura” finchèà nel 1298 si menziona un battifredo posto in Piumazzo nel luogo detto Navigata.

 

      In quell’anno si eseguono vari lavori in parte connessi con la fossa fra i quali un canale presso i confini e la Fossa Vecchia che scolmava le acque del Samoggia divaganti in numerosi meandri.

 

      La Fossa Navigata si sviluppava in direzione di Sant’agata per terminare a Crevalcore dove fu interrotta nel 1337 in quanto procurava alluvioni.

 

      Della Navigatura non rimangono tracce ma è possibile identificarla con il Finaletto ridotto ormai ad un rigagnolo.

 

      Il Finaletto era molti importante nel XVI secolo come dimostra una carta persicetana in quanto, oltre a fornire acqua al castello di Piumazzo, alimentava numerosi mulini giù fino a San Giovanni ed in modo particolare il mulino di Piumazzo.

 

      Derivava dal Samoggia presso Bazano e prendeva nome di Canale di Piumazzo nel tratto fino alle fosse del Castello che alimentava in continuazione per evitare le malattie che acque stagnanti avrebbero certamente procurato.

 

      Nel tratto conclusivo era poi controllato da un Consorzio che si occupava della sua manutenzione in quanto dal Finaletto dipendeva non poco l’economia della Bassa.

 

      Ora anche questa funzione è cessata e ci restano i ricordi e le tracce che ci parlano di mulini, di chiuse e di barche.

 

      In tempi in cui le strade erano appena accennate la funzione di una fossa come la Navigatura doveva essere fondamentale ai fini del commercio così come bastava interrompere un momento il flusso delle acque per arrestare il moto delle macine.

 

      Tutto è ormai perduto di quel mondo ed il contadino non traccia nemmeno più i limiti del suo campo con i fossati che un tempo erano oggetto di cure minuziose.

 

      Ma quando la stagione imperversa e il cielo scarica diluvi al piano come al monte gli antichi flussi ricompaiono, il Muzza ridiventa torrente, il Samoggia tracima dai capaci argini e ricompare la paura antica che non ha più l’alibi del sacrosanto rispetto che gli antenati hanno sempre devoluto alle acque.

 

ACQUE LIMPIDE E RIGOGLIOSE

 

      Lo stemma del comune di Modena porta una croce su uno scudo e due trivelle incrociate sopra il motto “Avia Pervia” che significa “Regione sotterranea (Avia) esplorata dai Modenesi (Pervia)”.

 

      In pratica riassume la ricerca dei pozzi artesiani o meglio dei pozzi modenesi cosiddetti perché si manifestano nella regione francese di Artois e lungo la linea subappenninica del modenese a ridosso della via Emilia.

 

      Un tempo bastava piantare un palo nel terreno per vedere zampillare acque purissime spinte verso l’alto dall’inclinazione degli strati e delle pieghe tettoniche che culminavano nell’Appennino ma oggi l’uso eccessivo delle acque ha reso sterili le falde più vicine alla superficie attenuando questo flusso spontaneo.

 

      Le acque di falda si manifestavano in superficie sotto forma di scaturigini note col nome locale di fontanili o “fontanazzi” che determinavano una linea di risorgive già a monte della via Emilia dove le quote altimetriche si avvicinavano ai 40 metri sul livello del mare.

 

      Opportunamente incanalate queste acque erano di estremo giovamento per l’economia locale e della bassa in particolare al punto che in certe stagioni di eccessiva abbondanza era difficile smaltirle.

 

      Una zona ricchissima di fontanazzi si trova nelle adiacenze del Prato dei monti.

 

      Alimentava tramite un canale, detto poeticamente delle “acque chiare”, il Mulino di Castelfranco e, dopo che le acque erano state riunite nel canale di Melara, interessava i mulini e le prese irrigue di tutto il Persiceto.

 

      Proprio per ordinare visivamente questa complessa idrografia fu concepita la carta delle acque e dei mulini di Persiceto in cui appare tutta la zona da noi studiata a metà del XVI secolo.

     

      Elemento saliente della carta che per il resto è alquanto approssimativa risulta la Muzza che venne disegnata con un tratto rettilineo trasversale per sottolineare la sua importanza come linea di confine.

 

      I pozzi modenesi ed i fontanazzi ispirarono nel passato il lavoro, la tradizione, la leggenda e i modi di dire.

 

      Quelli di Piumazzo erano espertissimi cavatori di pozzi che venivano perforati fino a profondità di oltre 10 metri con immensi pericoli derivanti dall’instabilità degli strati sotterranei e non pochi perdettero la vita a causa di crolli improvvisi.

 

      A Castelfranco il problema era invece quello di mantenere asciutte persino le fondazioni superficiali delle case per il continuo affiorare delle acque ma si poté dire che i Castelfranchesi ebbero prima di tutti gli altri mortali l’acqua in casa sotto forma di un pozzo che si poteva approntare in cucina, estrema comodità per i tempi passati.

 

      Parimenti si vociferava che non fossero buoni bevitori di vino per la mancanza di cantine sotterranee atte a custodire le botti e le bottiglie ma questo elemento denigratorio non era niente al confronto del detto che si era instaurato nei confronti di quelli di Manzolino secondo il quale “A Manzolino fra i due canali buona gente non ce ne può stare” o per quelli della paludosa Crevalcore dove, stando al Tassoni, “tanto gli uomini quanto le rane nascevano verdi e gialli”.

 

      Da ricordare la leggenda secondo la quale un contadino che arava il suo campo nei pressi del Prato dei Monti vide sprofondare improvvisamente nel terreno i buoi e l’aratro e scomparire sotto terra senza che potesse farci niente mentre in quel punto si andava formando un fontanazzo.

 

      Infine l’ampio fontanazzo che stava sulla via Emilia a sinistra di Castelfranco verso Modena e che per la sua forma era denominato Mezzaluna aveva fama di essere alimentato dal diavolo perché, pur essendo colmato con continue discariche, si manifestava sempre con identica energia spostandosi di lato.

 

 

 

 

CAPITOLO IV

 

 

IL MITICO CASTELLO DI CANETOLO

 

 

 

      Quando si analizzano le vicende del passato incerti fra mille difficoltà o fuorviati da elementi approssimativi e contraddittori ci sono momenti in cui si perde la fede e la voglia di fare.

 

      Ma quando la verità ti sembra vicina e palpabile forse non vorresti che fosse finita e saresti tentato di abbandonare le sudate ricerche per lasciare uno spazio al sogno ed alla fantasia.

 

      Per fortuna il passato non è mai tanto tangibile e proprio quando crediamo di essere sul punto di svelarne i segreti dobbiamo fare i conti con l’empito rigoglioso che sfociò da ogni cuore umano, con i pensieri e le opere, con le speranze e le realtà, con le vittorie e le delusioni ed infine con quell’inclinazione irripetibile dello spirito che fu di ieri ma non è di oggi e non sarà del domani.

 

      Questi pensieri sorgono spontanei affrontando il discorso di Canetolo un castello che fu rigoglioso al tempo dei puri cavalieri e che perì quando prevalse il mercantilismo delle città, un castello che vide di certo una vita misera e stentata ma seppe riassumere nelle sue fortificazioni una sufficiente misura d’orgoglio tale da indurci ad esclamare a distanza di mille anni che qui vissero da forti in pienezza di mezzi e con elevata capacità d’organizzazione nonostante i tempi difficili.

 

      I resti di Canetolo si elevano ancor oggi sotto forma di cumuli possenti a poca distanza da Piumazzo presso l’autostrada che per poco non li ha resecati cancellandoli definitivamente.

 

      Già da un lato essi sono stati abbattuti e forse la pala meccanica completerà fra poco il lavoro che secoli di attività umana non hanno portato a termine in una logica moderna che ritiene inutili gibbosità che pure sono splendidamente produttive ma permette irreparabili sevizi come gli scavi in aperta campagna e gli insediamenti irrazionali.

 

      Ma ora è tempo di andare dietro alla storia di Canetolo sprofondando nella notte dei tempi in quel luogo che continuava ad essere selvaggio e paludoso.

 

      I Longobardi avevano diviso il proprio territorio in Ducati governati da duchi di nomina reale.

 

      All’interno del ducato vi erano ripartizioni minori che venivano affidate a signorotti locali a titolo di feudo e enfiteusi secondo una procedura che, come abbiamo già visto, era propria dell’amministrazione ecclesiastica.

 

      Vennero così a formarsi tanti feudi minori che erano governati dal loro feudatario e ne costituivano al tempo stesso la proprietà dalla quale desumevano le loro rendite.

 

      I feudatari erano di origine guerriere e avevano ricevuto completa sottomissione nota come servitù della gleba.

 

      Il potere amministrativo dei feudatari non coincideva con il potere religioso anzi si dovevano spesso versare le decime come sostegno di questo.

 

      Per quanto riguarda la giurisdizione religiosa il territorio di Castelfranco e successivamente quello di Piumazzo dipendeva dalla Pieve di Monteveglio alla quale, durante le maggiori solennità dell’anno liturgico, venivano mandate commissioni ai cittadini per testimoniare la partecipazione della Comunità.

 

      Numerose sono le testimonianze della presenza di Canetolo in antiche carte ma esse ci riportano comunque prima del 1100 perché qui si arrestano anche le fonti più antiche.

 

      Canetolo appare in una carta Nonantolana del 1145 ed in una carta dell’Archivio capitolare di Modena del 1181 con cui Ardizzone Vescovo di Modena compera diversi terreni in quei contorni.

 

      Questi terreni furono poi in pratica una donazione fatta in San Giovanni Persiceto da Gherardo e Foscherio del fu Uguccione da Bazzano che cedono alla chiesa di Modena tutti i diritti che essi avevano acquistato a titolo di feudo.

 

      La citazione ci fornisce una precisazione importantissima sulla posizione di Canetolo in quanto troviamo : “In loco Bazano et in toto episcopato mutinensi et a Santa Maria in Strada et de Crespolano versum ocidentem et a Canitulo in suso”, che vuol dire . “In località di Bazzano, ed in tutto l’episcopato modenese e da Santa Maria in Strada e da Crespellano verso occidente e da Canetolo in su”.ù

 

      Questo luogo, che nei fogli di mappa del comune di Castelfranco Emilia è ancor oggi denominato Canetolo, è dunque la sede del nostro castello.

 

      Nell’interno del perimetro fortificato esisteva una chiesa che nell’opera di G.B.Melloni “Elenco delle chiese di Bologna” viene ancora citata nell’anno 1366 sotto il nome di “Chiesa di San Giovanni di Canetolo nella Curia di Piumazzo”.

     

      Di questa chiesa restano alcune testimonianze nelle strutture di una stalla ma nessun altro reperto è possibile indovinare dello antico perimetro anche perché non è difficile immaginare che, data la natura del luogo, Canetolo fosse costruito essenzialmente in legno.

 

      L’ultima immagine abbastanza completa ci perviene ancora dalla citata descrizione del Calindri che ci mostra il terrapieno e la fossa oggi completamente colmata.

 

      Così il Calindri descrive il luogo con appunti a corollario del disegno “Casa colonica e teggio, vallo all’uso antico fatto di ghiaia e sassi fluviabili, con rialzo dentro dove dicesi per tradizione una chiesa. Canetolo. 4 rialzi di terra di forma quadrata di 33 piedi di grossezza”.

 

      Tutto come prevedibile dunque con la fossa che si è andata colmando ma con la struttura che ci è pervenuta per tradizione e che la foto aerea ed il rilievo cartografico che ci mostrano chiaramente.

 

      Piuttosto altri elementi ci riportano all’origine, quelle ghiaie e sassi di fiume che non dovette essere difficile cavare stando le divagazioni del Panaro.

 

      Canetolo fruiva di acque copiosissime e di lì, secondo il Tiraboschi che cita un documento inoppugnabile dell’Abbazia di Nonantola, passava la Fossa Navigata o Navigatura che derivava dal Panaro attraverso una chiusa o Chiusone secondo un termine antico usato ancor oggi nell’accezione locale.

 

      A Canetolo dunque si perveniva in barca nella stagione propizia o a seconda degli umori dei padroni del Panaro ma se oggi non riesce più ad indovinare il percorso di un canale importante in antico come la Fossa Navigata non è lecito uno sforzo superiore della fantasia per immaginare quelle barche fra i campi e le paludi ……… ?

 

      Era ancora la natura splendida ed ostile a condizionare la vita locale e non a caso Canetolo, in antico Cannitulum, significa “canneto o luogo pieno di canne” come Piumazzo, Plumacium, vuol dire luogo inondato di piume da cui derivano le sementi delle canne e dei pioppi.

 

      Il discorso ci potrebbe portare lontano e non mancano gli elementi nella toponomastica locale per ampliarlo ma basti per tutti un nome che si riscontra nel fondo adiacente a Canetolo e che suona ancor oggi come Mezzalupa e Mazzalova, luogo ove è stata uccisa una lupa (lauva nel dialetto locale).

 

      Ora è tempo di ritornare agli avvenimenti e sono quelli tristi della decadenza del castello di Canetolo.

 

      Nel 1115 la contessa Matilde di Canossa muore e l’ordinamento feudale comincia a sgretolarsi con l’incalzare della potenza dei comuni di Modena e Bologna.

 

      E’ tempo di guerre nonantolane tramite le quali i due comuni si contendono il territorio fra Panaro e Samoggia e si strappano a vicenda i luoghi di Nonantola, Savignano, Bazzano e Crespellano conquistandoli e perdendoli a ogni fatto d’arme.

 

      Da soli non è più possibile sopravvivere ed inevitabilmente, come ci riporta la Cronaca di Matteo Grifoni, nel 1158 Monteveglio che si era reso temporaneamente indipendente passa sotto la protezione e custodia di Bologna e lo stesso fanno i castelli di Morero e Canetolo.

 

      Il destino è segnato e più tardi nel 1203 all’atto di fondazione del castello di Piumazzo apprenderemo che : “I Bolognesi costruirono il castello di Piumazzo in sostituzione dei castelli di Canetolo e San Marco che ………… erano andati in rovina”.

 

      E gli abitanti ?.

 

      Certamente si adeguarono alla novità della situazione o furono felici di acquisire quelle libertà che il Comune loro consentiva.

 

      Così nel 1267 troviamo un certo Arduino de Canetollo nella matricola dei fabbri in Bologna e sembra si occupasse di coltelli insieme ad un certo Albertinus de Plumacio che faceva lo spadaio.

 

      Ed i nobili feudatari di Canetolo ?

 

      Andarono and incrementare le schiere delle nobili decadenze o cercarono a loro volta fortuna in città.

 

      E’ quasi certo che da Canetolo si recarono a Bologna i Canetoli una famiglia particolarmente turbolenta e rissosa che animò per secoli le lotte interne cittadine giungendo ad avere la signoria.

 

      Non staremo a fare la storia dei Canetoli ma basta ricordare che la loro costante animosità dervò da un astio antico che affondava le radici nella perdita senza compensazione di un bene grandissimo, un’aureola di nobiltà mai più accettata e riconosciuta, proprio come Dante Alighieri, se è lecita simile citazione.

 

      Cacciati più volte dalla città i Canetoli si aggirarono a lungo nella zona che fu dei loro avi e la funestarono a lungo con le loro scorrerie.

 

      Ancora verso la fine del XV secolo il Muzzi ricorda: “Piumazzo comunque ebbe molto a patire per le sommosse di cui abbiamo detto: bande di facinorosi capitanati dai Canetoli, fuoriusciti bolognesi, con l’aiuto di Alberto Pio signore di Carpi l’occuparono”.

 

      Occorre infine ricordare che nel 129 a garanzia della pace generale ordinata nella zona di Piumazzo dal Comune di Firenze e da Papa Bonifacio VIII venne nominato come ambasciatore Saverio da Canetolo a riprova che i rappresentanti di questa famiglia contavano ancora nella zona.

 

LA CORTE DI SAN MARCO

 

     Se Canetolo fu importante altrettanto, o forse di più, lo fu la corte di San Marco che si trovava ad appena un chilometro di distanza.

 

      Nel medioevo si definivano “curtes” le comunità agricole di istituzione feudale costituite da un’abitazione padronale e da abitazioni accessorie per uso agricolo che si disponevano spesso a quadrato.

 

      Più precisamente per corte si intendeva l’organizzazione curtense dello spazio e del lavoro che coincideva con l’organizzazione feudale che abbiamo già illustrato.

 

      Sovente per necessità difensive la corte si muniva di torri e fossati e si confondeva col castello tanto è vero che anche Canetolo fu talvolta denominata Corte di Canetolo.

 

      Il luogo di San Marco è detto oggi dei Bastardini in quanto appartenne ad enti assistenziali che si occupavano di trovatelli ma nelle mappe è ancora chiaramente riportato come “San Marco grande e San Marco piccolo”.

 

      A margine del noto disegno di Calindri possiamo rinvenirne le ultime significative tracce in quanto si legge : “Nel luogo detto, San Marco de Bastardini con bastioni, rialzi di terra, volti, viali, muraglioni nella casa colonica ed attorno alla stessa, robba assai antica composta di sassi fluviabili e terra cotta dietra un muraglione di 5 piedi di grossezza, sotto la stessa buca ad uso di chiavica, entrando sfioratoie che non ci si può andare se non una persona carponi. S.Marco, rialzi di terra a doppio giro, di forma rettangolare di grossezza 44 piedi ognuno di tipo romano”.

 

 

      Come si vede una ricchezza di reperti superiore a qualsiasi altro luogo nei dintorni ed aggiunte di elementi misteriosi che alimentarono più di una leggenda.

 

      Le prime tracce di San Marco compaiono nell’anno 1112 quando la Contessa Matilde dona alla chiesa di San Cesario San Marci curte.

 

      Nell’atto di donazione è citato un luogo detto Camparolo come mostra anche una carta dell’Archivio Capitolare di Modena dove si cedono terre in anfiteusi in San Marco detto Camparolo e questo luogo era vicino a Crespellano.

 

      Il Castello di San Marco (ecco la confusione fra castello e corte) è citato nella Storia di Bologna del Muzzi già nell’anno 1117 ed appartenne forse ai capitani del Frignano in quanto sappiamo che nel 1131 i consoli fratelli Arrigo Libertino e Lanfranco Pighi cedettero al comune di Bologna una buona parte del territorio di Crespellano che fu conquistato dopo dai Modenesi lasciando certamente San Marco alle prese con dispute superiori alle sue forze.

 

      Assieme a Canetolo e San Colombano San Marco dovette affidarsi a Bologna in una dedizione completa da cui non sarebbe mai risorto essendo la zona scossa sovente da inaudite turbolenze ed avendo concentrato i bolognesi a Piumazzo ogni apparato difensivo.

 

      Anche quelli di San Marco accettarono la sorte a denti stretti e si adoperarono più volte per cambiarla e per riprendere quota.

 

      Infatti nel 1228 troviamo un tal Gerardo di San Marco personaggio influente del contado che trama una macchinazione per vendere il castello di Piumazzo ai nemici modenesi e viene poi punito con la confisca dei beni.

 

      Forse proprio a questo punto con questa trama immaginosa, che venne definita dai bolognesi una “viltà”, ebbe termine il sogno autonomistico dei nobili di San Marco.

 

LA CAPRA D’ORO E LA MISTERIOSA GALLERIA.

 

     La presenza mitica di una Capra d’oro diede origine fin dal più profondo medioevo ad una leggenda che si diffuse fra il Reno ed il Panaro e trovò collocazione nei luoghi di Canetolo e San Marco.

 

      Nel medioevo il caprone era considerato animale infernale e la tradizione vuole che una statua d’oro con queste sembianze si rivelasse agli uomini nelle notti di tempesta per tentarli.

 

      Chi aveva la ventura di trovarsela di fronte poteva venirne in possesso ma correva il rischio di venire a patto col diavolo vendendoli definitivamente l’anima.

 

      La Capra d’Oro si rivelava su rialzi di terreno detti “motte” che celavano tracce di antiche civiltà e che erano formate da cumuli di rifiuti lasciati da antiche popolazioni fin dal tempo delle palafitte.

 

      Una presenza sempre dunque legata a quella dell’uomo tanto che si può pensare ad una forma di culto di origine diabolica anche se non ne restano testimonianze.

 

      L’eco dei tempi ci rimanda solo all’attrazione ed al terrore che l’effige ispirava ma è possibile pensare a tutto ciò senza prevedere la possibilità che una statua d’oro sia stata veramente plasmata per essere adorata ed infine nascosta per qualche circostanza avversa?

 

      In questo caso il terrore sarebbe servito per allontanare gli uomini da ogni proposito di ricerca e questa suggestiva ipotesi non mi è mai sembrata tanto vana quando ho appreso che nel paese di Piumazzo più volte fu concepita ed abbozzata l’impresa di recuperare la capra tutta d’oro.

 

      Da sempre infatti si dice che sia nascosta nella galleria che secondo la tradizione si vuole collegasse Canetolo a San Marco.

 

      Ora anche se a questa galleria ho sempre stentato a credere per la friabilità del terreno e perché di storie di gallerie è pieno tutto il circondario, mi ha sorpreso il fatto che uomini che pure non sapevano  della storia antica di Canetolo e San marco fossero venuti in possesso di una notizia verosimile applicabile solo a luoghi fortificati che avevano sempre una segreta via di fuga.

 

      Genericamente si diceva che collegasse due conventi partendo dal luogo detto i “morti” cioè da Canetolo dove più volte furono trovate tracce del cimitero ed arrivando al voltone di San Marco che già il Calindri aveva annotato nel 700.

 

      Molte persone viventi possono ancora testimoniare l’accesso a questa galleria e la descrivono così : “Un Cancello di ferro in fondo ad alcuni gradini, un cunicolo e poi il buio più completo”.

 

      Ricordando infine chi vi si era avventurato si parlava di “soffi misteriosi che spegnevano la candela, gelo e terrore improvviso che dissuadevano ad ogni proposito di procedere oltre”.

 

      Il cunicolo era evidentemente rifugio di popolazioni angariate perché non avrebbe potuto servire come nascondiglio dei beni più preziosi ?

 

      Come si vede il mito dà sempre adito a divagazioni ma nasce comunque da una verità.

 

      Ecco perché la ricerca della Capra d’Oro può essere attuale come anno fatto ad Oliveto prendendo spunto da un mozzicone di lapide che indicherebbe il luogo dove fu nascosta la Capra d’Oro che vogliono di appartenenza a ricchi ebrei che abitavano la Casa Grande e che, rimanendo vittima del sanguinario Caldora, portarono nella tomba il loro segreto.

 

      Come dire che la caccia è aperta per chi ama tuffarsi nel mistero.

 

 

CAPITOLO V

 

 

MODENA E BOLOGNA AI FERRI CORTI

 

 

LA FORMAZIONE DEI COMUNI DI MODENA E BOLOGNA.

 

     Nel 1115 morì la contessa Matilde di Canosas e subito si ebbe la percezione dell’incombente rovina della società feudale che, privata della sua principale fonte d’autorità, cominciò progressivamente a sgretolarsi.

 

      A Bologna la folla assalì il castello del Conte e si formò il primo governo cittadino che ottenne il riconoscimento dell’Imperatore.

 

      Cominciò l’opera di asservimento del circondario e vennero mandati legati del comune per convincere i contadini a fuggire in città con la promessa di una nuova vita nelle libertà.

 

      In effetti dopo secoli di abbandono le città avevano bisogno di braccia e per procurarsele fu fatto largo uso del danaro che andava recuperando valore in sostituzione della pratica del baratto a cui si era fatto largamente ricorso per le ristrettezze degli orizzonti commerciali.

 

      Si ingenerò così un vero e proprio esodo che i piccoli feudatari non ebbero modo di frenare e che anzi incoraggiarono vendendo i servi della gleba alle città.

 

      I piccoli castelli decaddero rapidamente e quando cercarono di mantenersi autonomi vennero soggiogati con la forza delle armi.

 

      La crescita di Modena e Bologna fu contemporanea e pressoché analoga finchè, verso la metà del XII secolo, si trovarono ad avere contatti lungo i nuovi confini ove s’innescarono diversi punti di frizione che si pretese di risolvere con le armi.